Un'analisi dello stato di salute della coppia partendo dalla Teoria triangolare dell'amore.
Un'analisi dello stato di salute della coppia partendo dalla Teoria triangolare dell'amore.
Molte persone si trovano a fare i conti con la ritrovata libertà degli ultimi giorni: hanno paura di uscire e lasciare quello che per molto tempo é stato l’unico luogo dove sentirci davvero al sicuro ovvero la nostra casa.
Siamo finalmente entrati nella fase 2: dopo un lungo periodo in cui siamo stati costretti a restare in casa per limitare i contagi, il mondo sembra pian piano riprendere vita e si ampliano le possibilità di potersi ritrovare con gli amici, i colleghi e riprendere le attività che svolgevamo quotidianamente.
Mentre per molti é stato faticoso rimanere bloccati tra le mura domestiche, altri al contrario si sono adattati senza troppe difficoltà alle restrizioni imposte dalla quarantena, addirittura sembrano attualmente avere dei problemi nel riadattarsi a questa nuova fase.
Paura e frustrazione sembrano essere le emozioni alla base di questa “chiusura” che viene chiamata sindrome della capanna. La Società italiana di psichiatria ha stimato che circa un milione di italiani risultano affetti da questa sindrome che in passato si riscontrava negli individui costretti a un periodo di lunga degenza dovuto a interventi o gravi patologie.
Nelia situazione attuale la sindrome della capanna sembra aver interessato diverse tipologie di persone, non solo chi é stato contagiato dal coronavirus o ha subito lutti per la pandemia. Le cause possono essere diverse, si tratta per lo più di meccanismi inconsci che provocano una sintomatologia di tipo ansioso. Alcuni segnali possono essere l’insonnia e l’irascibilità persistenti nel tempo, anche diverse settimane dall’avvio della fase 2. Anche l’OMS ha lanciato un allarme a tal riguardo, secondo in direttore generale T. A. Ghebreyesus l’emergenza Covid-19 sta provocando un aumento di segnalazioni di patologie come ansia e depressione, ma anche disturbi del sonno anche in forme gravi. Tra le cause principali c’e’ la paura del mondo fuori percepito come pericoloso, contrapposto alla propria casa che rappresenta l’unica “bolla” sicura. É una paura generata non soltanto dal rischio di contrarre la malattia, ma anche quello di contagiare i propri cari, i genitori anziani, i figli, gli amici, i colleghi, il timore di non ritrovare fuori il mondo di prima che tra mascherine, regole per il distanziamento sociale, ingressi scaglionati é effettivamente molto cambiato anche a livello percettivo.
I soggetti più a rischio sono sicuramente le persone con una scarsa capacità di adattamento ai cambiamenti e gli “ipocondriaci”, eccessivamente preoccupati per il proprio stato di salute che percepiscono ogni sintomo come segnale di infezione da coronavirus. Mentre sin dai primi giorni di lockdown si sono sentiti a loro agio, questi individui e tutti quelli già affetti da disturbi ansiosi e fobici sembrano sentire ora il peso di questa chiusura, la propria casa rappresenta nello stesso tempo il luogo sicuro e la prigione. Anche gli anziani che hanno pagato il prezzo più caro di questa emergenza, non sembrano immuni da questa sindrome: in questo caso il timore del contagio non sembra legata tanto alla paura di morire, piuttosto si tratta della paura di morire da soli, senza poter salutare i propri cari e senza che possa essere celebrato il proprio funerale.
Anche le persone che sembrano non aver mai avuto problemi di ansia o adattamento, si troveranno ad affrontare situazioni inedite dovute a problemi economici o cambi della stile di vita che potrebbero portare o a reagire velocemente per reinvestire le proprie energie per raggiungere nuovi obiettivi, o al contrario a paralizzarsi. Abbandonare la propria capanna sicura, può rappresentare il passaggio dal timore alla certezza concreta delle difficoltà che la nuova realtà sconosciuta presenta.
La paura é un’emozione primaria che risulta fondamentale per la nostra difesa e sopravvivenza, é grazie alla paura e all’attivazione fisica di allerta che essa innesca, se riusciamo a metterci in salvo dai rischi o ad affrontarli (reazione di attacco o fuga). É bene tenere presente che il confine tra l’uso funzionale delle risorse in nostro possesso e un eccesso o assenza di interpretazione dei segnali di allerta é molto sottile. Le risposte di fronte a un pericolo invisibile come un virus possono essere totalmente opposte:
Le reazioni di ciascuno dipenderanno dalla propria resilienza, ovvero la capacità di un individuo di resistere agli “urti” della vita senza crollare, mantenendo e potenziando le proprie risorse sia a livello individuale che sociale.
E’ importante riconoscere e dare valore ai propri sintomi e stati d’animo: il disagio, l’ansia o addirittura il panico possono portare a evitare sempre più situazioni che potrebbero sfuggire al controllo. È importante riuscire a chiedere aiuto ad un professionista come uno psicoterapeuta se necessario: il lockdown non può prolungarsi per sempre, anzi più si rimanda e maggiore sarà la difficoltà a tornare alla vita sociale.
A volte é necessario trovare un luogo in cui elaborare le proprie emozioni, preoccupazioni o vissuti traumatici senza il timore di essere giudicati.
Il dolore è la reazione psicologica che è conseguente a una perdita, si tratta di una risposta emotiva che si manifesta per aver perso qualcosa o qualcuno di importante per noi e la nostra esistenza. Si tratta non soltanto di un dolore emotivo, ha infatti conseguenze sia fisiche che sociali.
Il dolore in genere si associa al lutto, ma può manifestarsi anche in seguito a una rottura di una relazione sentimentale, alla perdita del lavoro o di un oggetto con il quale avevamo un forte legame affettivo. Il dolore ci mette davanti al fatto che dovremo adattarci ad una nuova vita senza quella persona o quella cosa, al vuoto lasciato dalla perdita.
Il processo che porta all’elaborazione del dolore si può concludere in maniera naturale dopo un certo periodo di tempo, la sua evoluzione procede fino al superamento del trauma e può fortificarci e farci maturare nonostante la sofferenza “Ciò che non uccide, fortifica’’ (F. Nietzsche).
Tuttavia questo processo può, in alcuni casi, avere delle complicazioni e provocare dei disturbi sia fisici che emotivi e sociali, la sofferenza può evolversi infatti verso una vera e propria depressione. Molte persone restano infatti bloccate in una delle fasi che compongono questo processo di elaborazione, senza riuscire a staccarsi e a lasciare ciò che sentono di aver perso.
E` difficile determinare chiaramente quando il processo di elaborazione del dolore si è realmente concluso, può essere considerato un segnale il fatto di riuscire a guardare indietro, ricordare i momenti condivisi sia belli che brutti con uno stato d`animo sereno, con nostalgia ma senza dolore.
Accettare e comprendere il proprio dolore per poterlo affrontare richiede sicuramente tempo, può essere un`occasione per guardarsi dentro ed avere più fiducia in noi stessi facendoci scoprire nuovi aspetti della nostra personalità. La perdita ci costringe ad affrontare dei cambiamenti che, anche se possono spaventare sono sicuramente anche un`opportunità che può essere utile per la propria crescita personale.
E` importante condividere le nostre emozioni e sentimenti senza reprimerli, se necessario cercare l’aiuto di uno specialista della salute mentale.
Un cambiamento importante da fare è quello di incrementare le relazioni sociali, le attività, fare sport o corsi, può essere un modo per riscoprire o riprendere passioni o hobby che per mancanza di tempo o spazio erano state accantonate.
Si dovrebbe prendere seriamente in considerazione di cercare l`aiuto di uno psicoterapeuta quando si presentano alcuni dei seguenti segnali o sintomi:
Anche se tutti questi sintomi possono presentarsi nel corso di una normale elaborazione del dolore soprattutto nella fase successiva alla perdita, se persistono nel tempo diventano un motivo per preoccuparsi e rivolgersi a un esperto.
L`elaborazione del dolore implica l`entrare in contatto con il vuoto che ha lasciato la perdita, anche se può sembrare faticoso e doloroso è l`unico modo per riuscire a rivedere la luce.
La felicità è una nostra responsabilità!
Il distacco emotivo che implica il far finta di nulla e restare bloccati nel proprio dolore senza vederne l`uscita, equivale a una recita in cui non si è più attori ma semplici spettatori della propria vita e di quella degli altri.
Concludo riportando una parte del brano ‘’Non è per sempre’’ di Manuel Agnelli:
‘’Non c’é niente che sia per sempre
perciò se è da un po’ che stai così male
il tuo diploma in fallimento è una laurea per reagire.
Puoi finger bene, ma so che hai fame.
Tutto è efficacia e razionalità niente può stupire
E non è certo il tempo quello che ti invecchia e ti fa morire
Ma tu ti rifiuti di ascoltare ogni segnale che ti fa cambiare
Perchè ti fa paura quello che succederà se poi ti senti uguale….” (Aftherhours ‘’Non è per sempre’’).
Quella di instaurare relazioni sembra una paura tipica dell’uomo contemporaneo, nell’era del consumismo e della tecnologia tutto sembra dover andar veloce, è possibile avere tutto e subito senza che ci sia alla base la vera costruzione di un desiderio interno. Si preferisce sostituire al termine legame o relazione quello di connessione, un termine che da una parte dà l’illusione del non essere soli, ma dall’altra svincola dall’impegno di dover coltivare i legami per far sì che diventino solidi.
Bauman parla a tal proposito di “amore liquido” ovvero diffuso e impossibile da contenere. Nessuna connessione usata per colmare il vuoto lasciato da vecchi legami ormai logori o già spezzati ha tuttavia una garanzia di durata. Si tratta oltretutto di legami fragili, costruiti in modo da poterli sciogliere senza troppe difficoltà non appena lo scenario cambia le prospettive.
Da ciò che osserviamo, emerge l’ambivalenza dell’essere umano che da una parte desidera la sicurezza di una relazione e un aiuto su cui contare nel momento del bisogno, ma dall’altra ha il timore di restare intrappolato in relazioni stabili in quanto aprono lo scenario ad impegni e tensioni che non non vuole o pensa di non poter sopportare. Paradossalmente la scelta di impegnarsi in un rapporto va a minare la libertà di instaurare nuove relazioni, la scelta implica la rinuncia ad altre mille possibilità.
La relazione evoca continuamente la fantasia di un dolce sogno ma anche di un orribile incubo. Di fronte a questa ambivalenza, cioè l’incapacità di scegliere tra attrazione e repulsione, tra speranze e paure, spesso si reagisce con la paralisi, con un’incapacità di agire. Al desiderio di instaurare relazioni si contrappone l’evitamento che i rapporti si saldino…la domanda è se davvero si cercano relazioni durevoli o piuttosto non si desideri realmente che quelle relazioni siano superficiali e leggere in modo da potersene liberare in qualunque momento?
Già il solo concetto di relazione sembra evocare connotazioni negative, un solo termine sembra emanare il piacere dello stare insieme ma allo stesso tempo la paura di cadere in trappola. Forse è questo il motivo per il quale si sente sempre più spesso parlare di “connessioni”, “reti’’. A differenza di relazione che punta l’accento sull’investimento e l’impegno, il termine rete indica un contesto in cui è possibile entrare e uscire con facilità. In una rete le connessioni avvengono su richiesta e possono essere interrotte in qualsiasi momento, a periodi di contatto possono seguire periodi di libera navigazione. Le relazioni virtuali sembrano essere proprio il frutto di questa ambivalenza, a differenza delle relazioni reali, sono facili da instaurare e altrettanto facili da troncare, si può in qualsiasi momento “bloccare’’ ”cancellare” l’altro. La facilità a slegarsi e l’interruzione su richiesta dei rapporti tuttavia non riduce i rischi, semplicemente li redistribuisce insieme alle angosce che li accompagnano. Non ci si dà la possibilità di conoscere l’altro realmente, ma soprattutto di conoscere se stessi attraverso il rapporto con l’altro. Non ci si mette mai in gioco emotivamente, piuttosto si offre un’immagine superficiale che può fungere da maschera di protezione.
In questo scenario la psicoterapia si inserisce con difficoltà dato l’impegno che comporta sia in termini emotivi, temporali ed economici. Si tratta di un modello di cura che si fonda proprio sulla relazione e, come abbiamo visto prima, può evocare scenari di dipendenza se non di trappola. Per questo spesso si rifiuta l’aiuto più opportuno e si scelgono strade più brevi e alternative per evitare di legarsi e mettersi in gioco realmente a livello emotivo. L’unico modo per curare le relazioni è attraverso la relazione soprattutto con se stessi.
Attualmente i disturbi alimentari interessano un’ampia fascia di persone e assumono diverse forme: accanto alle forme più conosciute (anoressia, bulimia, binge eating) si stanno diffondendo nuovi disagi che si manifestano attraverso un’attenzione eccessiva all’alimentazione sana ed equilibrata (ortoressia) e una ricerca esasperata del fisico atletico e muscolarmente ipertrofico (vigoressia).
La richiesta di aderire ad un ideale di perfezione e bellezza, così insistentemente proposto dalla società, può incontrarsi con aspetti di fragilità personale, un’immagine distorta o negata del proprio corpo, difficoltà nel delicato processo di maturazione trovando espressione in un rapporto con il cibo difficile o patologico.
Il disturbo alimentare travolge la vita di una persona in tutti i suoi aspetti limitando e influenzando le capacità relazionali, lavorative, scolastiche e sociali dell’individuo che ne è affetto. Per la persona che soffre di una disturbo dell’alimentazione tutto ruota attorno al cibo e alla paura di ingrassare. Cose che prima sembravano banali come andare a cena fuori con gli amici, partecipare ad un compleanno o ad un matrimonio, diventano difficili e motivo di ansia. Spesso i pensieri sul cibo assillano la persona anche quando non è a tavola, ad esempio a scuola o sul lavoro; terminare un compito può diventare molto difficile perché nella testa sembra che ci sia posto solo per i pensieri su cosa si “deve” mangiare, sulla paura di ingrassare o di avere una crisi bulimica.
Solo una piccola percentuale di persone che soffrono di un disturbo dell’alimentazione chiedono aiuto. Nel caso dell’anoressia nervosa questo può avvenire perché la persona inizialmente non sempre si rende conto di avere un problema dato che la perdita di peso può farla sentire meglio, più magra, più bella e sicura di sé. Quando le cose invece cominciano a preoccupare, perché la perdita di peso è eccessiva o comunque comporta un cambiamento importante, molte persone non sanno come affrontare l’argomento. In genere sono i familiari che, preoccupati dalla perdita di peso eccessiva, si rendono conto del problema. Anche per loro però non è facile intervenire, soprattutto quando la figlia o il figlio non hanno ancora nessuna consapevolezza e rispondono con frasi come “non ho nessun problema …sto benissimo!”.
Nel caso della bulimia nervosa, chi ne è affetto si rivolge ad un terapeuta solo dopo molti anni dall’insorgenza del disturbo: inizialmente non si ha una piena consapevolezza di avere una malattia, ma soprattutto un forte senso di vergogna e di colpa frenano la persona nel chiedere aiuto o semplicemente di confidare a qualcuno di avere questo tipo di problemi.
Una caratteristica quasi sempre presente in chi soffre di un disturbo alimentare è l’alterazione dell’immagine corporea che può arrivare ad essere un vero e proprio disturbo. La percezione che la persona ha del proprio aspetto, ovvero il modo in cui nella sua mente si è formata l’idea del suo corpo e delle sue forme, sembrano influenzare la vita più della sua immagine reale. L’anoressica/o non riesce a giudicare il proprio corpo in modo obiettivo: l’immagine riflessa nello specchio è ai suoi occhi quella di una ragazza con i fianchi larghi, con le cosce grosse e con la pancia gonfia. Per le persone che soffrono di bulimia nervosa l’angoscia può essere ancora più forte per il fatto che perdere il controllo sul cibo fa percepire il peso corporeo (che molto spesso è normale) come eccessivo.
L’approccio terapeutico ad orientamento psicoanalitico ha tra i suoi obiettivi un lavoro sulla personalità del paziente e sul dolore che il sintomo esprime. Spesso, infatti, un trattamento che miri solo alla risoluzione diretta del sintomo può risultare poco adatto per questo tipo di disturbi poiché non tiene in considerazione la struttura di personalità sottostante.
Il rischio di un approccio terapeutico circoscritto al sintomo è infatti quello di continuare a non dare un senso a ciò che attende proprio di essere significato per poterlo elaborare all’interno di una relazione.
Crescere comporta accettare una nuova immagine di sé, la separazione dagli antichi oggetti d’amore, il superamento della dipendenza e dell’illusione di onnipotenza propria dell’età infantile. Se il conflitto necessario per portare a termine in modo ottimale la propria maturazione non può essere vissuto, l’accettazione di confini e limiti, sia intrapsichici che interpersonali, può divenire molto difficoltosa.
Il rapporto con il cibo è calato nel rapporto con l’altro, a tal punto che spesso lo rappresenta. Ha a che fare quindi con dinamiche di relazione familiare, sociale, culturale, oltre che con aspetti profondi e antichi legati alle esperienze di relazione primaria.
E’ per questi motivi che il trattamento terapeutico dei disturbi del comportamento alimentare dovrebbe prendere in considerazione la persona nella sua interezza, considerando la manifestazione evidente del disturbo come un sintomo che non può essere risolto senza un lavoro sulla causa che lo ha reso manifesto.
L’approccio psicoanalitico cerca di dare voce a quanto non detto e non pensato, di rendere pensabili contenuti caotici e scissi, di elaborare vissuti legati alla trasmissione trans-generazionale, di sviluppare la capacità di mentalizzare e di simbolizzare per superare e dare significato a esperienze sensoriali e corporee per poter accedere ad un pensiero astratto in grado di tollerare l’attesa e l’assenza. Questi cambiamenti sono possibili solo attraverso una relazione con l’altro che non sia centrata sul disturbo fisico, ma che sappia mantenere saldo il rapporto, troppo spesso scisso, tra mente e corpo, con uno sguardo rispettoso sulla complessità di un problema multideterminato, caratterizzato da numerosi fattori eziologici. Non si tratta di normalizzare il comportamento alimentare disturbato, ma di porre l’accento sul significato che il sintomo alimentare assume come rivelatore degli aspetti più intimi dell’individuo.
L’obiettivo del percorso psicoterapeutico è innanzitutto rendere la persona responsabile della sua scelta malata, comprendere le ragioni profonde del suo disagio e permettergli, gradualmente, di optare per una soluzione meno nociva e più consona alla realizzazione del proprio desiderio.
Se senti di non riuscire più a gestire il problema non esitare a contattare uno psicoterapeuta.
Che cosa si intende con iperattività nei bambini?
L’iperattività infantile e l’oppositività del bambino alle regole sociali sono diventati ormai fenomeni all’ordine del giorno. Negli ultimi 10 anni gli esperti hanno riscontrato un’esplosione di questi fenomeni infantili, i quali peraltro sembrano, con il passare del tempo, presentarsi sempre prima nel corso dello sviluppo infantile. Per questi motivi anche la psichiatria internazionale ha lavorato molto per creare delle categorie diagnostiche e dei nuovi protocolli di cura che facessero fronte alla portata epidemica del sintomo.
La diagnosi di ADHD – Attention Deficit Hyperactivity Disorder – renderebbe conto di questo problema infantile, che si manifesta in sintomi quali: iperattività motoria e comportamentale resistente alle forme di controllo educativo, oppositività alla regola sociale e all’autorità, incapacità di concentrarsi su di un compito specifico a causa dell’eccessivo livello di eccitazione psico-fisica.
I protocolli di cura oggi più utilizzati vanno dalla rieducazione comportamentale, al cosiddetto parent training – ovvero il sostegno genitoriale – fino all’assunzione farmacologica. Il farmaco Ritalin, a cui sono stati affiancati nel tempo altri farmaci più recenti, è diventato ormai molto conosciuto e dice di quanto sia difficile da gestire la sofferenza di un figlio “iperattivo”.
Quali possono essere le conseguenze sulla vita scolastica?
La scuola, con le sue richieste di rimanere tante ore seduti, ascoltare ed apprendere, esige un comportamento recettivo che può comportare una grande fatica per il bambino.
Nel contesto scolastico, le difficoltà di attenzione e l’iperattività sono causa di uno scarso rendimento, ma ciò di cui i bambini soffrono di più è la difficoltà di instaurare relazioni positive e significative sia con gli adulti che con i coetanei.
Il bambino iperattivo e disattento si confronta con un’immagine di sé sostanzialmente incapace, che viene continuamente sollecitata da compiti che egli teme di non saper svolgere e che tende quindi ad evitare.
Il senso di sé precario e il vissuto di inadeguatezza sono spesso rinforzati anche dalle conseguenze del disturbo che egli crea in classe, e dall’essere considerato ingestibile e insomma, “terribile”. A volte, peraltro, diventare l’eroe negativo può volere dire acquisire comunque un’identità o riuscire a catalizzare un’attenzione da parte degli altri che compensa il sentirsi “non visto”.
Il confronto continuo con un’immagine di sé “cattiva” aumenta ancor di più questi comportamenti. Sembra che quanto più il bambino si senta incapace, tanto più metta in atto comportamenti provocatori e onnipotenti: “posso fare tutto”, comportamenti che usa per negare il proprio senso di inadeguatezza.
Come possono collaborare genitori e insegnanti?
A volte ai genitori sembra che gli insegnanti non sappiano far altro che rimproverare i bambini fino allo sfinimento. In realtà la loro esasperazione non dipende solo dal comportamento dei bambini, ma dal proprio vissuto di frustrazione e impotenza: proprio gli stessi stati emotivi di cui il bambino cerca di sbarazzarsi attraverso comportamenti ipercinetici o provocatori. Possiamo ipotizzare che si inneschi un meccanismo di trasferimento di sentimenti intollerabili degli uni sugli altri, meccanismo che alimenta un circolo vizioso di aggressività in cui il bambino viene ripetutamente ammonito e allontanato dai compagni. Nella mia esperienza ho riscontrato la necessità di sensibilizzare gli insegnanti non soltanto a riconoscere alcuni sintomi tipici dell’ADHD, ma anche a individuare le implicazioni emotive legate alle difficoltà che accompagnano questi bambini. Può essere utile fermarsi a pensare a quanto accade nel “qui ed ora” dell’esperienza educativa e considerare la disattenzione o l’irrequietezza non come un comportamento incomprensibile: “Questo bambino è strano”, ma piuttosto inserirlo all’interno di una situazione di significato: “Che cosa è successo a quel bambino in quel determinato momento? Cosa è accaduto prima? Cosa può voler dire e comunicare?”.
Pensiamo che uno strumento privilegiato nella formazione dell’insegnante sia lo sviluppo della sua capacità di osservazione e di riflessione sul proprio vissuto emotivo in relazione al bambino. Anche il confronto tra colleghi può risultare prezioso e consentire una giusta distanza per comprendere meglio la situazione, laddove il coinvolgimento con il bambino sia molto intenso.
Spesso si crea anche tra insegnanti e genitori un circolo vizioso di accuse e rimproveri circa il senso di inadeguatezza nell’aiutare il bambino: rabbia ed impotenza ostacolano ulteriormente la comprensione e sono frequenti le recriminazioni per stabilire chi debba dare le regole al bambino. La ricerca del colpevole diventa una difesa anche per evitare di mettersi in discussione e fare i conti con sentimenti di colpa e inadeguatezza.
Come possiamo aiutare il bambino che presenta queste difficoltà?
I bambini, come è noto, si giovano di un ambiente prevedibile e tranquillo, un ambiente in cui ci sia la calma necessaria a cercare una comprensione che vada oltre le richieste esplicite.
Per questo è molto utile garantire continuità alla vita familiare tramite la creazione di regole, abitudini, attività routinarie e programmate, organizzando il tempo in sequenze: “prima fai questo…dopo questo..”, e la giornata in attività che diventino una consuetudine, possibilmente piacevole. Il calendario settimanale servirà a capire come funziona il tempo, così che ci si possa “collocare” all’interno di esso.
Con bambini che fanno molta fatica a mantenere l’attenzione a lungo su una cosa, può essere utile organizzare il tempo in segmenti più brevi: compiti più lunghi, per esempio, possono essere suddivisi in step più piccoli e separati da pause.
A casa è bene evitare stimoli disturbanti, assicurando un ambiente il più possibile tranquillo, ma non devono mancare le sollecitazioni e gli interessi specie con la compagnia di coetanei. I tempi della TV è bene limitarli al programma preferito o a quello che può essere visto in compagnia di un genitore.
Infine, oltre alla collaborazione tra genitori e insegnanti potrà essere di aiuto il ricorso allo psicoterapeuta dell’età evolutiva: la sua competenza specifica servirà a creare e mantenere le condizioni idonee alla crescita e, ove sia necessario, suggerire l’opportunità di un intervento psicoterapeutico familiare.
Come si sente il bambino iperattivo?
Nella mia esperienza clinica, ho potuto riscontrare che un deficit della regolamentazione emotiva è centrale nella iperattività e nella disattenzione. Tale deficit si esprime attraverso la continua eccessiva motilità che può rappresentare molto spesso una difesa contro affetti intollerabili e incontenibili. Spesso i sintomi descritti sono quindi l’espressione di altre difficoltà sottostanti. Il comportamento iperattivo può essere considerato una difesa messa in atto contro emozioni intollerabili sperimentate nelle prime fasi dello sviluppo. L’esperienza che il bambino vive è quella di non essere in grado di autocontrollarsi e di interiorizzare le regole che l’ambiente circostante propone. Non riuscendo a modulare le sue emozioni, ha spesso esplosioni di rabbia e aggressività verso i coetanei o anche gli adulti. I genitori trovano molto faticoso gestire queste crisi immotivate così come le continue provocazioni e a volte l’intera famiglia lamenta un certo isolamento sociale. Un’importante conseguenza da tener presente è che la sensazione di non essere amato all’interno della sua famiglia e nell’ambiente che lo circonda, genera nel bambino una bassa stima di sé e ciò quasi sempre rinforza i suoi comportamenti disturbanti e rende difficile la motivazione al cambiamento. In questo modo si crea un circolo vizioso nel quale il comportamento provocatorio e disturbante genera una reazione nell’ambiente che finisce per rinforzare la sintomatologia e il sentimento di impotenza di fronte al cambiamento. In apparenza il bambino si mostra forte e provocatorio ma al suo interno un disagio profondo lo pervade. Si dispiace di essere considerato sempre cattivo e finisce con l’aderire a questa identità negativa che gli viene rimandata dalle esperienze che fa nel tempo in ambito relazionale e scolastico. Gli altri e lui stesso si convincono di questa realtà.
Che senso diamo alla sofferenza di un bambino – o di un ragazzo – che rifiuta le regole, che non riconosce l’autorità dell’adulto, che non è in grado di stare fermo?
La psicoanalisi sostiene che il disagio dell’essere umano non è mai semplicemente l’effetto meccanico di una disfunzione organica o cognitiva. La psicoanalisi lavora assolutamente in controtendenza rispetto ad ogni forma di riduzione del sintomo alla dimensione meccanica del biologico e del cognitivo. Piuttosto riteniamo che la sofferenza sia sempre originata da un turbamento del vissuto emotivo-relazionale. L’emotività, l’affettività, nella sua portata inconscia è in grado di destabilizzare anche in modo molto significativo il vivere quotidiano di un individuo.
Le dinamiche inconsce che intratteniamo con le figure importanti nella nostra vita sono centrali e restano la fonte principale delle nostre gioie e dei nostri dolori. Ciò vale a maggior ragione per i bambini, così esposti e sensibili, aperti a ciò che viene dall’altro.
Dire questo non significa affermare in maniera semplicistica che se è un bambino mostra una sofferenza, la “colpa” è dei genitori! Nel mio lavoro mi trovo spesso a combattere contro il fantasma della colpa, per far intendere ai genitori che non si tratta tanto di trovare un colpevole, ma di cercare di comprendere quelle dinamiche che, inconsapevolmente, ci portano a contribuire alla creazione di una certa situazione. La stessa cosa, infatti, si fa con i bambini. È un bene che, in misura diversa, ciascuno si domandi sempre che contributo aggiunge al sistema al fine di ingenerare una situazione difficile per tutti.
In questo l’approccio della psicoanalisi non è certo incentrato sulla “colpa”, sentimento paralizzante e frustrante, quanto piuttosto sulla “responsabilità”, come a dire: “Proviamo a fermarci un momento, tutti assieme, e domandarci cosa sta succedendo in questa famiglia. Che contributo possiamo dare sia in positivo che in negativo al benessere collettivo familiare?”.
Affermare questo significa intanto sostenere che l’iperattività è un sintomo, e non semplicemente una malattia. La differenza malattia e sintomo consiste in questo: una malattia è qualcosa da debellare, da correggere, da eliminare per ripristinare uno status quo antecedente; il sintomo invece è primariamente qualcosa a cui bisogna prestare ascolto, perché un sintomo vuole sempre dire qualcosa!
Riflessioni sul fenomeno dell’iperattività infantile
L’iperattività, così come la fobia infantile, la difficoltà di apprendimento, la condotta antisociale, ecc…sono tutti sintomi, come abbiamo detto. Sono sintomi proprio perché rinviano ad un problema latente, nascosto, che una terapia deve poter far emergere.
L’infanzia è essenzialmente il tempo della costruzione dell’identità, dei propri schemi relazionali, di ciò che caratterizzerà tutta la vita di un individuo. Ma il compito evolutivo a cui un bambino è chiamato ad assolvere è essenzialmente uno, che peraltro definisce l’essenza stessa del processo educativo. L’educazione consiste nel differimento della soddisfazione. Ciò che significa che un bambino deve imparare a saper rinunciare alla soddisfazione immediata dei propri desideri, imparando a differire questa soddisfazione nel tempo. La spinta pulsionale deve essere controllata, sublimata, in modo da permettere ad un bambino di non essere schiavo della soddisfazione. In fondo, nella vita occorre fatica, dedizione, impegno, capacità di tollerare la frustrazione, altrimenti sarà ben difficile riuscire a costruire e mantenere un autentico progetto di vita incentrato su di un desiderio solido e duraturo, come ad esempio quello di una professione.
Insieme a questo capacità di tollerare la frustrazione del bisogno, l’altro compito evolutivo fondamentale di un bambino è quello di riuscire a separarsi dal campo materno, entrando nel circuito degli scambi sociali. Non è un caso infatti che molte problematiche infantili esplodano nel momento in cui la realtà impone una separazione dalla madre, come avviene ad esempio all’ingresso del campo scolastico (asilo nido, elementari).
In questi momenti importanti di separazione il bambino è chiamato a rendere conto della capacità di distaccarsi dal soddisfacimento materno, riuscendo, anche se con qualche difficoltà, ad entrare nel legame con i pari e con le altre figure adulte.
È questo il percorso che ogni bambino è chiamato ad intraprendere: imparare a sostituire il legame unico con l’oggetto materno con nuovi legami.
In questo senso la de-maternalizzazione, lo svezzamento psichico è necessario al bambino per costruire il mondo dei legami sociali. Molte patologie infantili, per non dire tutte, hanno a che vedere, almeno in parte, con la difficoltà o il fallimento di questo processo di distaccamento simbolico.
Ma cosa riceve il bambino in cambio di questa rinuncia alla soddisfazione primaria e alla vicinanza affettiva all’oggetto materno? È ciò che molti bambini contemporanei si domandano e a volte domandano esplicitamente all’adulto: “Ma perché dovrei rinunciare ad avere tutto subito? Chi me lo fa fare? Perché dovrei accettare questa frustrazione? Cosa me ne viene in tasca?”.
Ciò che un bambino dovrebbe ricevere in cambio della rinuncia alla soddisfazione immediata è l’accesso alla dimensione simbolica del desiderio. Il desiderio è quella spinta vitale che spinge un individuo ad intraprendere un progetto di vita, una strada, una vocazione. E le vocazioni, si sa, iniziano a formarsi nell’infanzia. Ma non c’è accesso possibile al desiderio in assenza dell’esperienza di accettazione del limite, in assenza di rinuncia al soddisfacimento immediato della pulsione.
Volere tutto e subito resta nell’inconscio un comando potente.
La novità è che oggi questo comando al godimento immediato non solo non viene disincentivato dal discorso sociale, ma al contrario viene sponsorizzato con l’idea che l’unica soddisfazione possibile sia quella immediata, pura, senza compromessi e fatiche. È la felicità del godimento raggiungibile attraverso gli oggetto di consumo presenti sul mercato. Questo discorso sociale condiviso comporta un raddoppiamento della forza pulsionale presente nel bambino e rende più difficile l’esperienza del desiderio, che, come abbiamo detto, nasce dalla tolleranza dell’esperienza della mancanza, della perdita, della soddisfazione differita.
La depressione è uno dei disturbi psichici più comuni e invalidanti. La percentuale di persone che soffrono di depressione sembra aumentare costantemente nel tempo e, non a caso, l’OMS ha previsto che nel giro di pochi anni la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le malattie cardiovascolari. Sul piano epidemiologico, la depressione è sempre più diffusa ed è il disturbo psichiatrico più comune: dal 10% al 20% della popolazione adulta viene colpito dal disturbo depressivo nel corso della vita. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oggi circa 300 milioni di persone soffrono di depressione.
La depressione di per sé non è da considerare come malattia, quanto piuttosto un affetto, una realtà radicata nella nostra evoluzione psichica, una sorta di condizione indispensabile per la creatività, un sentimento abituale dell’uomo. La nostra esistenza è segnata infatti da momenti di inevitabile dolore. La vita infatti comporta delusioni, fatiche, perdite, che a volte stravolgono l’ordine del mondo in cui si credeva. Pensiamo, ad esempio, alla morte di una persona cara, alla fine di un amore, alla perdita di un lavoro o di un riconoscimento sociale: sono tutti eventi che segnano una crisi nel nostro equilibrio interiore, aprono ferite dolorose o ne riaprono di vecchie.
C’è bisogno di tempo per venire a patti, elaborare le perdite: i movimenti psichici richiedono gradualità e una certa lentezza. In alcuni casi questi processi possono anche incagliarsi e si fa fatica a riemergere da soli: la fiducia sembra affievolirsi; il dolore può diventare così insostenibile da spingere alla solitudine. La perdita di una persona o di una condizione esistenziale che offriva sicurezza e solidità può gettarci in un abisso: ci sentiamo persi in un buio senza fine, nell’impossibilità di ritrovare un contatto, un affetto, una speranza. A volte ciò che si sente perduto o mancante ha che fare con il proprio Sé: come se ci fosse un pezzo difettoso, qualcosa in meno, qualcosa che un tempo c’era e ora non si trova più.
Sentimenti di mortificazione, inadeguatezza, fallimento, disperazione, colpa possono via via offuscare il piacere della vita.
Definizione di depressione
La Depressione è un disturbo del tono dell’umore, funzione psichica importante per l’adattamento. L’umore è generalmente flessibile: quando gli individui vivono eventi o situazioni piacevoli, esso flette verso l’alto, mentre flette verso il basso in situazioni negative e spiacevoli. Chi soffre di depressione non mostra questa flessibilità, ma il suo umore è costantemente flesso verso il basso, indipendentemente dalle situazioni esterne.
Non a caso, dunque, chi presenta i sintomi della depressione mostra frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza, tendendo a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane.
In generale, sentirsi depressi significa vedere il mondo attraverso degli occhiali con le lenti scure: tutto sembra più opaco e difficile da affrontare, anche alzarsi dal letto al mattino o fare una doccia. Molte persone depresse hanno la sensazione che gli altri non possano comprendere il proprio stato d’animo e che siano inutilmente ottimisti.
Quali sono i sintomi principali della depressione?
Il DSM (Manuale diagnostico dei disturbi mentali) mette in primo piano i sintomi biologici e somatici della depressione, ma trascura i vissuti soggettivi.
Le conseguenze della depressione quali possono essere?
Le conseguenze della depressione si possono riscontrare in diversi ambiti della vita dell’individuo. Chi ne soffre ha importanti ripercussioni sulla vita di tutti i giorni, dalla famiglia al lavoro. L’attività scolastica o professionale della persona depressa può diminuire in quantità e qualità soprattutto a causa dei problemi di concentrazione e di memoria. Questo disturbo, inoltre, porta al ritiro sociale e con il tempo danneggia le relazioni con il/la partner, figli, amici e colleghi.
In chi soffre di depressione, l’umore condiziona anche il rapporto con sé stessi e il proprio corpo. Tipicamente, infatti, chi è depresso ha difficoltà a curare il proprio aspetto, mangiare e dormire in modo regolare.
Non bisogna trascurare le conseguenze della depressione a livello fisico: l’American Heart Association (2014), ad esempio, ha evidenziato che la depressione è associata ad un aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e cerebrovascolari.
Chi soffre di depressione va incontro ad un ulteriore costo molto alto da pagare: soffrire a lungo e in forma grave del disturbo porta l’individuo a pensare, e spesso tentareil suicidio. Molte volte infatti, chi soffre di questo disturbo si toglie la vita lasciando nel pieno sconforto amici e parenti.
L’affetto depressivo
L’evento “chiave” che può innescare l’affetto depressivo è la perdita, la perdita di qualcuno o qualcosa che si ritiene necessario per il mantenimento del benessere psichico. Allo stesso tempo questo cambiamento si denota anche come perdita di uno stato del Sé, come un venir meno della stabilità interiore e del sentimento del proprio valore, della propria capacità. L’affetto depressivo implica sempre quindi un calo dell’autostima e un impoverimento del Sé: chi è depresso si sente scarico, svuotato, non crede più in se stesso e si considera un fallito.
Bleichmar (1996, 1997), riprendendo Freud (1926), evidenzia come oltre alla perdita, debba sussistere anche la mancata accettazione della stessa e il permanere del desiderio nei confronti dell’oggetto perduto, desiderio destinato a rimanere insoddisfatto per sempre perché la propria aspirazione al ricongiungimento con esso rimarrà sempre tale. Infine, perché si determini una compromissione dell’autostima e si configuri un’esperienza depressiva, è necessaria la presenza dell’aggressività, un’aggressività diretta contro se stessi. La fragilità costitutiva del sentimento di sè può talvolta portare a cercare affannosamente i rifornimenti per l’autostima soprattutto nel mondo esterno, nelle situazioni di vita e nelle relazioni. È questo il caso di individui che mostrano una difficoltà “strutturale” nel dare continuità al senso del proprio valore in assenza di conferme e di riconoscimenti provenienti dall’esterno. Si parla in questi casi di “depressione anaclitica” (il termine “anaclitico” fa riferimento all’appoggiarsi su qualcuno/qualcosa), caratterizzata prevalentemente da angoscia di abbandono e senso di isolamento, da un pervasivo bisogno di essere amati “nutriti” e protetti da persone o situazioni particolarmente investite sul piano affettivo.
Ci sono circostanze in cui l’affetto depressivo “non trova le parole” e si esprime nel corpo, con somatizzazioni di vario genere, si parla in questo caso di “depressione mascherata”: non si osserva il tipico abbassamento del tono dell’umore, mentre prevalgono i sintomi somatici come dolori diffusi, disturbi gastrointestinali, cefalea, insonnia, stanchezza persistente o altri sintomi fisici. L’espressione nel corpo del disagio depressivo risulta particolarmente importante nei bambini – che ancora non dispongono di adeguati mezzi verbali e di capacità cognitive che consentano di dar voce alle loro emozioni – e negli adolescenti o negli anziani, per i quali il corpo, anche se per motivi molto diversi, assume nel vissuto soggettivo un’importanza centrale.
Talvolta è invece un ricorrente stato di agitazione a mascherare un sottostante assetto depressivo: il sentimento di incapacità e fragilità intrinseco alla depressione fa sì che ogni cosa, ogni impegno, scelta o relazione, possa diventare una minaccia al proprio equilibrio. L’allerta permanente che ne consegue si manifesta con una sintomatologia ansiosa, in apparente assenza di depressione; nella pratica clinica sono frequenti i casi di ansia che, ad un esame più approfondito, si precisano in realtà anche come disturbi depressivi (depressione agitata).
Infine la depressione può presentarsi insieme alla patofobia, con il convincimento angoscioso di essere affetti da qualche malattia fisica, grave o mortale, in assenza di una corrispondente patologia organica riscontrabile nella realtà. Spesso questa condizione si accompagna al corteo dei diversi sintomi che caratterizzano il quadro clinico tipico della depressione, ma a volte appare essenzialmente come angoscia ipocondriaca, come terrore di fronte alla malattia di cui ci si crede portatori, come una “depressione senza affetto depressivo”.
Come si può intervenire?
Nel trattamento della depressione si ricorre alla terapia con antidepressivi e alla psicoterapia, entrambe di fondamentale importanza.
La terapia con antidepressivi è unicamente sintomatica, agisce cioè sui sintomi ed è necessaria quando la loro gravità inibisce la vita sociale, lavorativa e affettiva.
Intervenire solo con i farmaci però molte volte non basta: va ricordato infatti che le cause della depressione non sono soltanto di tipo biologico e che il disturbo può insorgere anche per motivi di natura psicosociale.
In molti casi, proprio quando la gravità dei sintomi inibisce la vita sociale, relazionale e professionale dei pazienti, ricorrere alla sola psicoterapia non è una scelta corretta: è bene, infatti, intervenire farmacologicamente sui sintomi, in modo da ridurne la gravità e iniziare così un percorso di psicoterapia. Quest’ultimo in particolare può offrire uno spazio di accoglienza e riconoscimento dei propri vissuti, sostiene la persona in un percorso di conoscenza di sé volto a mettere in parola quel dolore prima rappresentato dalla depressione o da un corpo sofferente.
Stabilire dei limiti non equivale ad alzare la voce, arrabbiarsi o mancare di rispetto all’altro non tenendo conto dei suoi bisogni. Mettere dei limiti significa proprio il contrario: strutturare, regolare il comportamento e insegnare, in poche parole vuol dire educare.
Educare implica il dire “no” a richieste inappropriate, trasmettendo ai nostri figli il principio che a volte bisogna saper aspettare per ottenere ciò che si desidera. Educare significa anche insegnare che alcuni comportamenti hanno delle conseguenze pertanto andrebbero corretti.
Sono molteplici le domande e i dubbi che ci travolgono quando si tratta di educare i nostri figli, così come le emozioni, soprattutto quando bisogna stabilire dei limiti. Molti genitori sentono di essere rispettivamente “cattivi padri” o “cattive madri” quando devono prendere decisioni che riguardano le regole da fissare.
Facciamo un esempio: vi trovate in pizzeria con vostro figlio, improvvisamente quella che doveva essere una piacevole uscita di famiglia si trasforma in breve tempo in una situazione frustrante e imbarazzante. Vostro figlio pretende di avere lo smartphone per giocare, ma voi non soddisfate questa sua richiesta perché pensate non sia il momento per isolarsi. Il bambino a questo punto inizia a piangere, gridare, si butta per terra e scalcia. Voi iniziate a vergognarvi perché a quel punto tutti gli altri clienti vi guardano disturbati dalla situazione, vi arrabbiate sempre di più e per porre fine al caos date il telefono al bambino. A questo punto tutto si tranquillizza: vostro figlio smette di fare i capricci e soddisfatto si mette a giocare, voi non dovete più preoccuparvi degli sguardi infastiditi e giudicanti delle altre persone e potete continuare la cena.
In una situazione di questo tipo, ovvero quando i genitori cedono, da una parte si sentono sollevati perché il bambino smette di piangere e non si devono più vergognare, dall’altra però trasmettono al bambino l’idea che grazie ai capricci può ottenere tutto ciò che desidera. Per i genitori è più semplice cedere alle richieste dei figli, ma a lungo andare il prezzo di questa abitudine sarà sempre più alto perché i comportamenti inappropriati si riprodurranno a velocità esponenziale con conseguenze sempre più sgradevoli.
Il bambino imparerà a manipolare gli adulti di riferimento attraverso questi comportamenti utilizzandoli regolarmente, mentre i genitori non riusciranno più a controllare il comportamento del proprio figlio se non accontentando ogni sua richiesta.
La mancanza di limiti ha delle conseguenze sullo sviluppo della personalità: gli individui che non hanno strutturato dei limiti hanno una bassa tolleranza alla frustrazione, fanno fatica a riconoscere e gestire le proprie emozioni e non accettano di buon grado le regole e gli obblighi. In genere manipolano e fanno sentire in colpa gli altri al fine di ottenere ciò che vogliono.
I troppi privilegi, la scarsa pazienza, la mancanza di costanza e impegno, la scarsa capacità di collaborazione, le aggressioni e anche la distruzione di oggetti, sono tutte conseguenze di un processo educativo carente di limiti. Il bambino diventa il despota in casa: è lui a ordinare, comandare e decidere.
Sono molte le famiglie in cui è il bambino ad avere l’ultima parola e gli adulti si adattano alle sue routine, ai suoi programmi, soddisfacendo ogni richiesta e capriccio.
Il compito principale dei genitori è proprio quello di educare i figli affinchè possano essere autonomi e auto-regolarsi, ma per far sì che questo avvenga è necessario che inizialmente vengano regolati dall’esterno attraverso la trasmissione di limiti e regole.
Il mestiere del genitore è sicuramente il più difficile e faticoso senza ferie o pause, a volte si può avere bisogno di un piccolo aiuto da parte di un professionista per evitare che la situazione diventi incontrollabile.
L’abbandono del proprio partner, dei genitori durante l’infanzia o persino della società è una condizione che genera una ferita che, anche se nascosta, difficilmente rimargina completamente.
Ci si può trovare a dover affrontare, sin dalla più tenera età, la paura dell’abbandono.
Sentirsi abbandonati non equivale solo ad avere un genitore effettivamente assente durante l’infanzia, spesso si tratta di un abbandono emotivo che ha delle conseguenze più profonde e dolorose. Avere dei genitori fisicamente presenti ma assenti dal punto di vista emotivo, per un bambino può essere devastante per il proprio sviluppo relazionale, in quanto vengono minate le basi per lo sviluppo di un attaccamento sano.
Essere abbandonati durante l’infanzia è un’esperienza che segna e può portare a continui fallimenti affettivi che lasciano un senso di vergogna e angoscia. L’angoscia dell’abbandono porta a provare la sensazione di aver perso qualcosa e scava un vuoto dal quale echeggia il pensiero di non poter essere amati e che la solitudine sia il solo ed unico rifugio…che in fondo non ci si può fidare di nessuno!
Questa sensazione di vuoto non ha età, qualsiasi bambino la può sentire, qualsiasi adulto ne può essere devastato.
Temere che le persone che amiamo possano abbandonarci da un momento all’altro è comprensibile soprattutto quando esperienze del genere sono state già vissute, tuttavia non è sana l’ansia che si scatena di conseguenza: non possiamo permettere che il pensiero ossessivo di essere lasciati ci tormenti.
La paura dell’abbandono può diventare una prigione asfissiante che arriva a pregiudicare qualsiasi rapporto. Il modo migliore per gestirla è capirne l’origine. Si tratta di una paura primordiale che ha origine dalle relazioni primarie, pertanto liberarsene può non essere semplice, tuttavia sanare questa ferita aperta porta ad uscire da una gabbia che ci tiene prigionieri insieme alle nostre carenze affettive.
Il trauma di uno o più abbandoni va a minare la propria autostima: sentiamo di non valere nulla e si può sviluppare l’ansia di ulteriori abbandoni. La paura dell’abbandono può portare alla costruzione di dinamiche relazionali “tossiche”: si ha un bisogno continuo dell’altro, al punto da arrivare a rinunciare alla propria autenticità pur di sentirsi amati ed apprezzati (rinuncio a me stesso pur di compiacere l’altro).
Nessuno merita di vivere una relazione del genere: nessuno ha il compito di salvarci ed il partner non può rappresentare la nostra unica fonte di affetto. L’unico amore che può davvero guarire è quello per noi stessi.
Non si può permettere che la mancanza di fiducia vada a minare le nostre relazioni di coppia: per raggiungere la stabilità è necessario lavorare sulla fiducia in noi stessi per poter poi stingere rapporti più maturi e significativi.
E’ importante lavorare sulla propria autonomia emotiva, solo noi, infatti, possiamo colmare i nostri vuoti: non si può pretendere che qualcun altro si assuma le nostre responsabilità.
Il processo che porta ad elaborare e superare la paura dell’abbandono può essere un percorso lungo e doloroso che difficilmente si riesce a percorrere senza un aiuto.
Qualsiasi abbandono, fisico o mentale, lascia una profonda ferita. Se si sente che questo sentimento ci limita e impedisce di instaurare relazioni mature e soddisfacenti, è il caso di contattare uno psicologo.
Solo quando saremo in grado di dare a noi stessi l’amore che meritiamo, le cose cambieranno.
La gravidanza e la maternità sono eventi di enorme portata nella vita di una donna.
Determinano cambiamenti fisici e psicologici che spesso possono diventare difficili da gestire e far emergere malessere e disagio.
Sono un periodo di cambiamento e di crisi evolutiva, caratterizzato da una precarietà emotiva che deriva dal trovarsi ad affrontare emozioni che spesso non si conoscono o non si sanno riconoscere, dalla paura di non essere all’altezza del compito, dal riferimento alle proprie esperienze di figlia, il cui ricordo può aiutare od ostacolare la propria esperienza di genitore.
Purtroppo l’aiuto che arriva alle mamme in attesa o alle neo-mamme dalla società in genere riguarda più consigli pratici su parto, allattamento, pappe e pannolini, piuttosto che informazioni su come nasce e si costruisce la relazione col proprio bambino, su quali emozioni, difficoltà, crisi possano scatenare la gravidanza e la maternità e su come tutte si possano affrontare in maniera efficace.
Inoltre nell’immaginario collettivo la gravidanza e la maternità sono eventi connotati sempre e solo in senso positivo: la madre deve essere felice per definizione e non può permettersi di avere problemi o se li ha deve reagire in nome dell’amore per il figlio ed il partner.
In realtà, se ci si ferma ad ascoltare una donna che è in attesa di un figlio o che lo ha appena avuto, si scoprirà che i sentimenti e le emozioni non sono certo racchiudibili in tali luoghi comuni. Emergeranno invece spesso la paura, la fatica, il senso di colpa, l’inadeguatezza, l’impotenza, la rabbia.
Capita spesso di pensare: “Ce la farò?” oppure “Sono malata se penso che non ce la faccio?”
In realtà, quando nasce un bambino, nasce anche una madre che ha bisogno di sostegno e cura quanto il bambino che deve nascere o è appena nato.
Il sostegno psicologico, l’incoraggiamento, l’ascolto ed il rispetto delle proprie sensazioni e stati d’animo è sicuramente basilare per la mamma in attesa o per la neomamma.
Per offrire cure ad un piccolo totalmente dipendente è indispensabile essere psicologicamente ed emotivamente in grado di farlo, e questo può avvenire solamente se una madre è, a sua volta accudita, se i suoi vissuti, anche e soprattutto quelli negativi, sono accolti e non rifiutati come “anormali”.
“Ci sono persone che rimangono colpite quando scoprono che un neonato non suscita in loro solo sentimenti d’amore” affermava Winnicott.
Invece è importante sapere che anche l’aggressività è una componente dell’amore materno, da sempre.
E’ importante sapere che ci si può sentire inadeguate, impotenti, in colpa, arrabbiate, esauste, distrutte e che questo non significa essere madri “cattive”. E’ necessario però parlare di tutti questi sentimenti, non isolarsi, non chiudersi nel proprio mondo credendo di essere “sbagliate”.
Il periodo della gravidanza è importante per costruire lo spazio affettivo che accoglierà il bambino, lo è pure per l’elaborazione delle crisi e dei conflitti che possono emergere in questo momento e che si rivelano necessari per la ristrutturazione della relazione di coppia e per la preparazione dei coniugi al ruolo di genitori.
La nascita di un figlio può infatti alterare tutta una serie di equilibri e dinamiche che la coppia si è costruita nel tempo. Possono nascere tensioni ad esempio rispetto alla gestione della vita domestica e dei ruoli in casa, sulle modalità di cura ed educazione del bambino. A volte possono riattivarsi questioni non risolte rispetto ai propri modelli genitoriali e diventa indispensabile impegnarsi per affrontarle ed elaborarle. L’arrivo di un figlio richiede una ridefinizione delle regole e degli spazi nella coppia, e questo richiede grande flessibilità, capacità di definizione dei confini del nuovo nucleo familiare e acquisizione e rinforzo delle nuove competenze genitoriali.
La genitorialità può diventare un’opportunità di crescita per la coppia, l’aiuto di un professionista può favorire il confronto e migliorare la comunicazione e l’intesa. L’esplicitazione e condivisione delle proprie ansie può ridurre le incomprensioni e rafforzare il legame.
Il servizio di sostegno alla maternità fornisce supporto psicologico alla donna nel corso della gravidanza, nei mesi immediatamente successivi al parto e durante i primi anni di vita del bambino.
Nello specifico si propone un percorso finalizzato a: