Che cosa si intende con iperattività nei bambini?
L’iperattività infantile e l’oppositività del bambino alle regole sociali sono diventati ormai fenomeni all’ordine del giorno. Negli ultimi 10 anni gli esperti hanno riscontrato un’esplosione di questi fenomeni infantili, i quali peraltro sembrano, con il passare del tempo, presentarsi sempre prima nel corso dello sviluppo infantile. Per questi motivi anche la psichiatria internazionale ha lavorato molto per creare delle categorie diagnostiche e dei nuovi protocolli di cura che facessero fronte alla portata epidemica del sintomo.
La diagnosi di ADHD – Attention Deficit Hyperactivity Disorder – renderebbe conto di questo problema infantile, che si manifesta in sintomi quali: iperattività motoria e comportamentale resistente alle forme di controllo educativo, oppositività alla regola sociale e all’autorità, incapacità di concentrarsi su di un compito specifico a causa dell’eccessivo livello di eccitazione psico-fisica.
I protocolli di cura oggi più utilizzati vanno dalla rieducazione comportamentale, al cosiddetto parent training – ovvero il sostegno genitoriale – fino all’assunzione farmacologica. Il farmaco Ritalin, a cui sono stati affiancati nel tempo altri farmaci più recenti, è diventato ormai molto conosciuto e dice di quanto sia difficile da gestire la sofferenza di un figlio “iperattivo”.
Quali possono essere le conseguenze sulla vita scolastica?
La scuola, con le sue richieste di rimanere tante ore seduti, ascoltare ed apprendere, esige un comportamento recettivo che può comportare una grande fatica per il bambino.
Nel contesto scolastico, le difficoltà di attenzione e l’iperattività sono causa di uno scarso rendimento, ma ciò di cui i bambini soffrono di più è la difficoltà di instaurare relazioni positive e significative sia con gli adulti che con i coetanei.
Il bambino iperattivo e disattento si confronta con un’immagine di sé sostanzialmente incapace, che viene continuamente sollecitata da compiti che egli teme di non saper svolgere e che tende quindi ad evitare.
Il senso di sé precario e il vissuto di inadeguatezza sono spesso rinforzati anche dalle conseguenze del disturbo che egli crea in classe, e dall’essere considerato ingestibile e insomma, “terribile”. A volte, peraltro, diventare l’eroe negativo può volere dire acquisire comunque un’identità o riuscire a catalizzare un’attenzione da parte degli altri che compensa il sentirsi “non visto”.
Il confronto continuo con un’immagine di sé “cattiva” aumenta ancor di più questi comportamenti. Sembra che quanto più il bambino si senta incapace, tanto più metta in atto comportamenti provocatori e onnipotenti: “posso fare tutto”, comportamenti che usa per negare il proprio senso di inadeguatezza.
Come possono collaborare genitori e insegnanti?
A volte ai genitori sembra che gli insegnanti non sappiano far altro che rimproverare i bambini fino allo sfinimento. In realtà la loro esasperazione non dipende solo dal comportamento dei bambini, ma dal proprio vissuto di frustrazione e impotenza: proprio gli stessi stati emotivi di cui il bambino cerca di sbarazzarsi attraverso comportamenti ipercinetici o provocatori. Possiamo ipotizzare che si inneschi un meccanismo di trasferimento di sentimenti intollerabili degli uni sugli altri, meccanismo che alimenta un circolo vizioso di aggressività in cui il bambino viene ripetutamente ammonito e allontanato dai compagni. Nella mia esperienza ho riscontrato la necessità di sensibilizzare gli insegnanti non soltanto a riconoscere alcuni sintomi tipici dell’ADHD, ma anche a individuare le implicazioni emotive legate alle difficoltà che accompagnano questi bambini. Può essere utile fermarsi a pensare a quanto accade nel “qui ed ora” dell’esperienza educativa e considerare la disattenzione o l’irrequietezza non come un comportamento incomprensibile: “Questo bambino è strano”, ma piuttosto inserirlo all’interno di una situazione di significato: “Che cosa è successo a quel bambino in quel determinato momento? Cosa è accaduto prima? Cosa può voler dire e comunicare?”.
Pensiamo che uno strumento privilegiato nella formazione dell’insegnante sia lo sviluppo della sua capacità di osservazione e di riflessione sul proprio vissuto emotivo in relazione al bambino. Anche il confronto tra colleghi può risultare prezioso e consentire una giusta distanza per comprendere meglio la situazione, laddove il coinvolgimento con il bambino sia molto intenso.
Spesso si crea anche tra insegnanti e genitori un circolo vizioso di accuse e rimproveri circa il senso di inadeguatezza nell’aiutare il bambino: rabbia ed impotenza ostacolano ulteriormente la comprensione e sono frequenti le recriminazioni per stabilire chi debba dare le regole al bambino. La ricerca del colpevole diventa una difesa anche per evitare di mettersi in discussione e fare i conti con sentimenti di colpa e inadeguatezza.
Come possiamo aiutare il bambino che presenta queste difficoltà?
I bambini, come è noto, si giovano di un ambiente prevedibile e tranquillo, un ambiente in cui ci sia la calma necessaria a cercare una comprensione che vada oltre le richieste esplicite.
Per questo è molto utile garantire continuità alla vita familiare tramite la creazione di regole, abitudini, attività routinarie e programmate, organizzando il tempo in sequenze: “prima fai questo…dopo questo..”, e la giornata in attività che diventino una consuetudine, possibilmente piacevole. Il calendario settimanale servirà a capire come funziona il tempo, così che ci si possa “collocare” all’interno di esso.
Con bambini che fanno molta fatica a mantenere l’attenzione a lungo su una cosa, può essere utile organizzare il tempo in segmenti più brevi: compiti più lunghi, per esempio, possono essere suddivisi in step più piccoli e separati da pause.
A casa è bene evitare stimoli disturbanti, assicurando un ambiente il più possibile tranquillo, ma non devono mancare le sollecitazioni e gli interessi specie con la compagnia di coetanei. I tempi della TV è bene limitarli al programma preferito o a quello che può essere visto in compagnia di un genitore.
Infine, oltre alla collaborazione tra genitori e insegnanti potrà essere di aiuto il ricorso allo psicoterapeuta dell’età evolutiva: la sua competenza specifica servirà a creare e mantenere le condizioni idonee alla crescita e, ove sia necessario, suggerire l’opportunità di un intervento psicoterapeutico familiare.
Come si sente il bambino iperattivo?
Nella mia esperienza clinica, ho potuto riscontrare che un deficit della regolamentazione emotiva è centrale nella iperattività e nella disattenzione. Tale deficit si esprime attraverso la continua eccessiva motilità che può rappresentare molto spesso una difesa contro affetti intollerabili e incontenibili. Spesso i sintomi descritti sono quindi l’espressione di altre difficoltà sottostanti. Il comportamento iperattivo può essere considerato una difesa messa in atto contro emozioni intollerabili sperimentate nelle prime fasi dello sviluppo. L’esperienza che il bambino vive è quella di non essere in grado di autocontrollarsi e di interiorizzare le regole che l’ambiente circostante propone. Non riuscendo a modulare le sue emozioni, ha spesso esplosioni di rabbia e aggressività verso i coetanei o anche gli adulti. I genitori trovano molto faticoso gestire queste crisi immotivate così come le continue provocazioni e a volte l’intera famiglia lamenta un certo isolamento sociale. Un’importante conseguenza da tener presente è che la sensazione di non essere amato all’interno della sua famiglia e nell’ambiente che lo circonda, genera nel bambino una bassa stima di sé e ciò quasi sempre rinforza i suoi comportamenti disturbanti e rende difficile la motivazione al cambiamento. In questo modo si crea un circolo vizioso nel quale il comportamento provocatorio e disturbante genera una reazione nell’ambiente che finisce per rinforzare la sintomatologia e il sentimento di impotenza di fronte al cambiamento. In apparenza il bambino si mostra forte e provocatorio ma al suo interno un disagio profondo lo pervade. Si dispiace di essere considerato sempre cattivo e finisce con l’aderire a questa identità negativa che gli viene rimandata dalle esperienze che fa nel tempo in ambito relazionale e scolastico. Gli altri e lui stesso si convincono di questa realtà.
Che senso diamo alla sofferenza di un bambino – o di un ragazzo – che rifiuta le regole, che non riconosce l’autorità dell’adulto, che non è in grado di stare fermo?
La psicoanalisi sostiene che il disagio dell’essere umano non è mai semplicemente l’effetto meccanico di una disfunzione organica o cognitiva. La psicoanalisi lavora assolutamente in controtendenza rispetto ad ogni forma di riduzione del sintomo alla dimensione meccanica del biologico e del cognitivo. Piuttosto riteniamo che la sofferenza sia sempre originata da un turbamento del vissuto emotivo-relazionale. L’emotività, l’affettività, nella sua portata inconscia è in grado di destabilizzare anche in modo molto significativo il vivere quotidiano di un individuo.
Le dinamiche inconsce che intratteniamo con le figure importanti nella nostra vita sono centrali e restano la fonte principale delle nostre gioie e dei nostri dolori. Ciò vale a maggior ragione per i bambini, così esposti e sensibili, aperti a ciò che viene dall’altro.
Dire questo non significa affermare in maniera semplicistica che se è un bambino mostra una sofferenza, la “colpa” è dei genitori! Nel mio lavoro mi trovo spesso a combattere contro il fantasma della colpa, per far intendere ai genitori che non si tratta tanto di trovare un colpevole, ma di cercare di comprendere quelle dinamiche che, inconsapevolmente, ci portano a contribuire alla creazione di una certa situazione. La stessa cosa, infatti, si fa con i bambini. È un bene che, in misura diversa, ciascuno si domandi sempre che contributo aggiunge al sistema al fine di ingenerare una situazione difficile per tutti.
In questo l’approccio della psicoanalisi non è certo incentrato sulla “colpa”, sentimento paralizzante e frustrante, quanto piuttosto sulla “responsabilità”, come a dire: “Proviamo a fermarci un momento, tutti assieme, e domandarci cosa sta succedendo in questa famiglia. Che contributo possiamo dare sia in positivo che in negativo al benessere collettivo familiare?”.
Affermare questo significa intanto sostenere che l’iperattività è un sintomo, e non semplicemente una malattia. La differenza malattia e sintomo consiste in questo: una malattia è qualcosa da debellare, da correggere, da eliminare per ripristinare uno status quo antecedente; il sintomo invece è primariamente qualcosa a cui bisogna prestare ascolto, perché un sintomo vuole sempre dire qualcosa!
Riflessioni sul fenomeno dell’iperattività infantile
L’iperattività, così come la fobia infantile, la difficoltà di apprendimento, la condotta antisociale, ecc…sono tutti sintomi, come abbiamo detto. Sono sintomi proprio perché rinviano ad un problema latente, nascosto, che una terapia deve poter far emergere.
L’infanzia è essenzialmente il tempo della costruzione dell’identità, dei propri schemi relazionali, di ciò che caratterizzerà tutta la vita di un individuo. Ma il compito evolutivo a cui un bambino è chiamato ad assolvere è essenzialmente uno, che peraltro definisce l’essenza stessa del processo educativo. L’educazione consiste nel differimento della soddisfazione. Ciò che significa che un bambino deve imparare a saper rinunciare alla soddisfazione immediata dei propri desideri, imparando a differire questa soddisfazione nel tempo. La spinta pulsionale deve essere controllata, sublimata, in modo da permettere ad un bambino di non essere schiavo della soddisfazione. In fondo, nella vita occorre fatica, dedizione, impegno, capacità di tollerare la frustrazione, altrimenti sarà ben difficile riuscire a costruire e mantenere un autentico progetto di vita incentrato su di un desiderio solido e duraturo, come ad esempio quello di una professione.
Insieme a questo capacità di tollerare la frustrazione del bisogno, l’altro compito evolutivo fondamentale di un bambino è quello di riuscire a separarsi dal campo materno, entrando nel circuito degli scambi sociali. Non è un caso infatti che molte problematiche infantili esplodano nel momento in cui la realtà impone una separazione dalla madre, come avviene ad esempio all’ingresso del campo scolastico (asilo nido, elementari).
In questi momenti importanti di separazione il bambino è chiamato a rendere conto della capacità di distaccarsi dal soddisfacimento materno, riuscendo, anche se con qualche difficoltà, ad entrare nel legame con i pari e con le altre figure adulte.
È questo il percorso che ogni bambino è chiamato ad intraprendere: imparare a sostituire il legame unico con l’oggetto materno con nuovi legami.
In questo senso la de-maternalizzazione, lo svezzamento psichico è necessario al bambino per costruire il mondo dei legami sociali. Molte patologie infantili, per non dire tutte, hanno a che vedere, almeno in parte, con la difficoltà o il fallimento di questo processo di distaccamento simbolico.
Ma cosa riceve il bambino in cambio di questa rinuncia alla soddisfazione primaria e alla vicinanza affettiva all’oggetto materno? È ciò che molti bambini contemporanei si domandano e a volte domandano esplicitamente all’adulto: “Ma perché dovrei rinunciare ad avere tutto subito? Chi me lo fa fare? Perché dovrei accettare questa frustrazione? Cosa me ne viene in tasca?”.
Ciò che un bambino dovrebbe ricevere in cambio della rinuncia alla soddisfazione immediata è l’accesso alla dimensione simbolica del desiderio. Il desiderio è quella spinta vitale che spinge un individuo ad intraprendere un progetto di vita, una strada, una vocazione. E le vocazioni, si sa, iniziano a formarsi nell’infanzia. Ma non c’è accesso possibile al desiderio in assenza dell’esperienza di accettazione del limite, in assenza di rinuncia al soddisfacimento immediato della pulsione.
Volere tutto e subito resta nell’inconscio un comando potente.
La novità è che oggi questo comando al godimento immediato non solo non viene disincentivato dal discorso sociale, ma al contrario viene sponsorizzato con l’idea che l’unica soddisfazione possibile sia quella immediata, pura, senza compromessi e fatiche. È la felicità del godimento raggiungibile attraverso gli oggetto di consumo presenti sul mercato. Questo discorso sociale condiviso comporta un raddoppiamento della forza pulsionale presente nel bambino e rende più difficile l’esperienza del desiderio, che, come abbiamo detto, nasce dalla tolleranza dell’esperienza della mancanza, della perdita, della soddisfazione differita.