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9 Aprile 2018 News

Il terremoto, così come ogni evento naturale che provoca disastri, conduce l’uomo a sperimentare paure profonde e ancestrali, dal momento che lo mette nella condizione di dover fare i conti con un fenomeno assolutamente imprevedibile e che nessuna invenzione umana è in grado di controllare pienamente. Quando la terra trema, quando la natura fa sentire la sua “voce”, non solo viene messa a repentaglio la propria esistenza, ma vacillano anche i propri punti di riferimento e tutte le certezze. Questa paura ancestrale è amplificata in coloro che soffrono d’ansia e tendono a voler mantenere il controllo di tutto per poterla gestire al meglio.

La paura dell’ignoto, della possibilità di morire e talvolta il senso di responsabilità per l’incolumità dei propri bambini o dei genitori anziani, possono provocare non poche conseguenze a livello psicologico.

I sintomi frequenti che si sviluppano in questa fobia sono tutti sintomi che rientrano in un quadro di ansia e sono:

  • Palpitazioni, respiro rapido e iperventilazione
  • Desiderio di fuggire
  • Sudorazione
  • Secchezza della bocca
  • Vertigini
  • Disturbi intestinali
  • Tendenza a pianificare ogni via di fuga in caso di terremoto.

Le reazioni possono essere diverse: alcune persone sono più resilienti, sono cioè più capaci di “assorbire” l’urto di un evento catastrofico, altre lo sono meno. Anche all’interno di una stessa famiglia i vissuti possono essere molto differenti, nonostante magari la scossa sia stata vissuta nella stessa casa e affrontata con le stesse modalità.

Il trauma che un terremoto crea intacca qualcosa di profondo, qualcosa che è legato all’identità delle persone e dei popoli, alle certezze di una vita, a una quotidianità che non esiste più, all’incertezza sul futuro. Le crepe nelle case e negli edifici hanno moltissime similitudini con le crepe che si formano all’interno delle persone.

La metafora della distruzione è complementare alla metafora della ricostruzione, così come gli edifici si mettono in sicurezza e si ricostruiscono, così le memorie vengono rispolverate e riempite di nuove esperienze; così come le crepe vengono sistemate, così le fratture del sé vengono ricucite; alcune ferite si rimarginano, altre lasceranno per sempre il segno.

Il terremoto porta alla luce paure profonde e la consapevolezza della precarietà dell’esistenza, con effetti psicologici molto seri. Può essere tuttavia l’occasione per riflettere sul senso della nostra vita, sulla qualità dei rapporti umani, sui valori che fino ad oggi abbiamo seguito, su ciò che è veramente importante per noi.

Quando ormai si pensa di aver superato il trauma, una scossa o un anniversario può far riemergere ricordi e reazioni che non si riescono a gestire e controllare. Questo può essere il segnale che la ferita è ancora viva e aperta e che è stata soltanto coperta per un po’ solo per evitare il sanguinamento. In questi casi può essere importante chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta per riuscire ad esplorare e affrontare il trauma senza farsi dominare da esso.


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5 Febbraio 2018 News

L’ansia da esame è caratterizzata dalla paura, dal terrore, di affrontare un’interrogazione o un esame. Ben altra cosa è l’ansia fisiologica che può accompagnare e favorire una prestazione, e porta al raggiungimento di migliori risultati rispetto alla sua completa assenza o ad eccessivi livelli di ansia.

Nell’ansia da esame patologica, l’idea di dover sostenere una prova è associata ad intensi sintomi come preoccupazione, pensieri o immagini catastrofiche (essere bocciati, fare una figuraccia, fare scena muta, non ricordare nulla, avere una crisi di panico, scappare all’ultimo momento, sentirsi falliti, umiliati, difettati o deludere gli altri significativi) che innescano la cosiddetta “ansia anticipatoria”.

Le persone affette da ansia da esame possono sviluppare tutta una serie di sintomi tra i quali: ansia diffusa, preoccupazione eccessiva per la prova, confusione, tremori, agitazione, irrequietezza, incapacità a rilassarsi, tachicardia, nausea, vertigini, sintomi fisici vari; nei casi più “gravi” questi sintomi possono sfociare in un vero e proprio attacco di panico situazionale che, può innescare la paura di morire, di perdere il controllo di se stessi o di impazzire. Spesso le persone affette da ansia d’esame evitano di affrontare la prova per il timore di non riuscire a sopportare i sintomi e le conseguenze dell’ansia. Spesso si cerca di far fronte all’ansia da esame assumendo ansiolitici che possono alleviare lo stato ansioso ma non incidono sulle cause psicologiche che sono alla base della crisi ansiosa.

Gli adulti e gli adolescenti sono consapevoli che la loro paura è irrazionale o, quanto meno, esagerata ma, nonostante questa consapevolezza, non riescono a fronteggiarla, anzi il fatto di essere coscienti di esagerare espone gli studenti ad ulteriori sofferenze che derivano dalla considerazione di essere diversi dagli altri, troppo fragili, di non poter raggiungere traguardi ambiziosi, di deludere gli altri, di essere dei falliti. Questi pensieri negativi possono compromettere l’autostima, innescare vissuti di inadeguatezza a cui spesso si accompagnano sentimenti di vergogna, autosvalutazione e depressione.

A causa dell’ansia da esame la persona può compromettere il proprio percorso scolastico ritardando la conclusione degli studi oppure può avere un rendimento inferiore all’investimento, all’impegno nello studio e alle proprie capacità cognitive. Nei casi più gravi l’ansia da esame può spingere l’individuo ad abbandonare gli studi nonostante le potenzialità.

Spesso, per queste persone, la prova da affrontare (sia essa un’interrogazione, un compito in classe o un esame), non si limita ad una prestazione ma coincide con il valore personale che si attribuiscono: in sostanza fallire ad un esame equivale ad essere dei falliti, compromettere la propria vita, deludere se stessi e gli altri.

Il lavoro psicoterapeutico mette spesso in risalto come, nella storia di chi soffre di ansia da esame patologica, l’autostima ed il valore personale, così come l’essere degni di amore, sia stato condizionato dalle “prestazioni”, in particolare scolastiche.

E’ possibile riscontrare nella storia di queste persone episodi specifici che le hanno portate all’eccessivo investimento sul successo scolastico per ottenere ammirazione, amore, approvazione o, al contrario, evitare umiliazioni o rimproveri. L’ansia da esame è spesso accompagnata da pensieri di fallimento, vergogna, paura di deludere gli altri o di compromettere il proprio futuro. In genere, le persone che manifestano eccessiva ansia da esame hanno un’autostima condizionata dagli altri (insegnanti, datori di lavoro, partner, genitori, amici, ecc.) e quindi più vulnerabile poiché basata su criteri esterni che spesso possono rivelarsi arbitrari.

L’ansia da esame non è dunque semplicemente l’ansia per l’esame, ma l’angoscia, che può sfociare in panico, di dover ogni volta giocarsi tutto: autostima, fiducia, approvazione, amore, e rischiare di perderlo. Ognuno di noi esposto a questo rischio manifesterebbe un’ansia patologica. Alcune persone possono funzionare abbastanza bene finché un episodio, come una bocciatura imprevista, un voto basso o una prestazione non all’altezza, fa crollare tutta la sicurezza innescando o, aumentando, l’ansia per gli esami futuri. In altri casi le persone fanno i conti con la propria ansia da sempre.

L’ansia da esame può influire in maniera significativa sulla qualità della vita della persona e questo deve far riflettere circa l’importanza di un trattamento psicoterapeutico.

Il problema centrale da affrontare all’interno di un percorso psicologico consiste nel rafforzamento della propria autostima rendendola meno dipendente dal giudizio degli altri.


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28 Gennaio 2018 News

Forse dovrei andare da uno psicologo! È una frase che molti pensiamo in momenti difficili, in realtà ad oggi sono ancora pochi coloro che decidono di intraprendere un percorso terapeutico nonostante la psicologia incuriosisca e affascini la maggior parte delle persone.

“Chi va dallo psicologo è pazzo!”: questo sembra essere un pregiudizio ormai abbattuto, nonostante ciò ci sono una serie di false credenze che ostacolano la scelta di rivolgersi ad uno psicologo nei momenti di crisi o di difficoltà legati a fasi particolari della propria vita.

Cerchiamo di approfondire alcune delle motivazioni che prevalgono nel momento in cui si sceglie di intraprendere un percorso psicologico ma ci frenano nel momento in cui dovremmo fare la chiamata per il primo colloquio:

  • Lo psicologo costa molto

Si pensa spesso che una terapia psicologica richieda più sedute a settimana a un costo elevato, in realtà la maggior parte dei professionisti propongono una seduta settimanale o anche quindicinale in base alle esigenze, rendendo la spesa molto più accessibile.

Nessuno nega che si tratti di un corposo investimento economico, ma è appunto un investimento sulla propria salute e benessere paragonabile ad altre spese sanitarie e come tale detraibile fiscalmente.

  • Posso parlare con i miei amici

Sicuramente la vicinanza emotiva e il sostegno degli amici è una risorsa fondamentale per ogni individuo in particolare nei momenti di difficoltà, ma il supporto psicoterapeutico è un intervento di struttura differente con caratteristiche e modalità specifiche.

La competenza professionale di uno psicologo porta il paziente non solo a tirare fuori e sfogare i propri problemi, ma soprattutto ad elaborare i propri vissuti, ad essere più consapevole delle proprie emozioni riuscendo in tal modo a gestirle, ad analizzare le proprie relazioni e i propri comportamenti.

Il segreto professionale al quale è legato lo psicologo inoltre, può favorire il paziente ad aprirsi su temi profondi e privati senza sentirsi giudicato.

  • Chiedere aiuto è segno di debolezza

Decidere di intraprendere un percorso terapeutico nel quale mettersi in discussione a 360 gradi per poter migliorare, è un atto di grande coraggio, il solo fatto di fare una chiamata per chiedere un appuntamento richiede uno sforzo emotivo non da poco.

Per ammettere la propria sofferenza, per chiedere aiuto e mettersi in discussione ci vuole forza e coraggio, è molto più semplice far finta che tutto vada bene o si risolverà col tempo.

  • Sono forte, ce la faccio da solo

Spesso il pensiero di riuscire ad affrontare il problema da solo rivela il fatto che il problema è stato soltanto messo da parte con la speranza che il congelamento e il tempo possa farlo sparire.

In realtà poi ci si ritrova a rivivere sempre gli stessi problemi, le stesse delusioni, le stesse dinamiche relazionali.

Le difficoltà vanno attraversate ed elaborate per essere superate, si tratta di un lavoro faticoso e a volte non si ha la lucidità per mettersi completamente in discussione da soli, per questo i problemi si ripresentano e i sintomi possono aumentare.

  • A me non serve lo psicologo

Spesso non si è consapevoli dei propri problemi, a volte le persone si rendono conto che nella loro vita c’è qualcosa che non va e agiscono per attuare dei cambiamenti ed essere più soddisfatti, al contrario altre persone attribuiscono la responsabilità e la causa dei propri problemi all’esterno senza mettere minimamente in discussione il proprio comportamento o atteggiamento.

Si tratta dei casi sicuramente più gravi e più difficili, la mancanza di consapevolezza non permette di chiedere aiuto e richiede l’intervento di amici e parenti esasperati che cercano di incitare la persona a mettere in luce le proprie difficoltà che risultano ormai non più tollerabili per l’ambiente di appartenenza.


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18 Gennaio 2018 News

La rivalità e gelosia tra fratelli è un fenomeno molto comune nelle famiglie con due o più figli. Il conflitto viene espresso attraverso aggressioni verbali e fisiche soprattutto da parte del fratello più grande che spesso accusa i genitori di avere delle preferenze per il figlio più piccolo.

Dopo aver vissuto nella condizione di “figlio unico” per diversi anni con la convinzione di mantenere questa posizione privilegiata per lungo tempo o addirittura per sempre, il primogenito si sente spodestato dall’arrivo del fratellino o della sorellina che diventa il fulcro dell’attenzione dei genitori.

La gelosia che caratterizza il rapporto tra fratelli, nella realtà ha come bersaglio proprio la madre o il padre: gli attacchi nei confronti del più piccolo spesso derivano dal timore di essere trascurati e messi da parte.  Il nuovo arrivato assume il ruolo di intruso, di rivale da combattere per riconquistare la vecchia posizione centrale di potere.

I genitori possono avere dei comportamenti diversi nei confronti del secondo figlio, essendo più maturi e sicuri per l’esperienza acquisita, inoltre il primo figlio a volte viene caricato da investimenti eccessivi, considerato il garante della continuità familiare è gravato da un peso simbolico proprio del primogenito. Questo porta il bambino a fare dei confronti, a subire cambiamenti negli spazi, nelle abitudini che spesso i genitori non riescono a compensare: tutto questo genera frustrazione, senso di abbandono e rabbia.

L’esperienza dell’arrivo di un fratello è comunque un’esperienza importantissima, un momento di crescita e maturazione per il figlio più grande che è costretto a confrontarsi, senza potersi sottrarre, con bisogni, comportamenti e interessi nuovi.

Diversità e somiglianza sono le caratteristiche che rendono unica la relazione tra fratelli: necessità di distinguersi dall’altro, di fare spazio affettivo per accogliere un altro individuo diverso ma simile, con il quale si condividono oltre al patrimonio genetico, anche esperienze comuni e la storia familiare.

Il primogenito può trovarsi nella posizione di essere oggetto di dipendenza e ammirazione da parte del fratello e cerca di barcamenarsi tra la rivalità, la solidarietà e la condivisione di spazi e tempi oltre che dei genitori.

La relazione tra fratelli si può considerare come la prima palestra di vita sociale, un’occasione di apprendimento e sperimentazione delle proprie capacità di cura, di collaborazione e di alleanza per ottenere dei vantaggi comuni.

La funzione della madre e del padre nel rapporto tra fratelli deve essere quella di favorire la condivisione cercando di non far sentire al figlio più grande sentimenti di abbandono e trascuratezza, è importante riservare per lui degli spazi privilegiati di ascolto attento e partecipe.

Il ruolo del figlio maggiore non deve implicare responsabilità ed obblighi per soddisfare le aspettative dei genitori che devono favorire l’alleanza e la condivisione di esperienze mantenendo comunque lo spazio vitale di ognuno e l’autonomia.

Tra fratelli esiste un legame unico, irripetibile e speciale che inizia precocemente e dura a lungo nel tempo acquisendo un’importanza sempre maggiore nel corso della vita.


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20 Dicembre 2017 News

Sta per arrivare il Natale, la tradizionale festa della famiglia!

Si tratta di un’occasione per ritrovare, recuperare e consolidare i legami affettivi e i sentimenti di appartenenza. Si addobba la casa, l’albero di Natale, si partecipa a pranzi e cene luculliane, ci si scambia i regali…la tradizione e l’educazione ci hanno indotto a vivere magicamente il lungo periodo natalizio.

Ma a Natale siamo tutti più buoni e più felici?

Non è proprio così…ci sono molti più Grinch di quanto immaginiamo!

Comprare tutti i regali, organizzare cene con parenti e amici, valutare l’anno trascorso, il riaffiorare del ricordo di chi non c’è più, ma soprattutto mostrarsi in sintonia con il clima di festa: tutto ciò può generare uno stato di frustrazione, tristezza e depressione.

Più in generale il fastidio, l’irritazione e il desiderio che il periodo natalizio finisca il prima possibile, possono essere identificati come i sintomi della “depressione Natalizia” o “Christmas blues” come la definiscono gli americani.

L’aspetto positivo è che questo stato psicologico non si può considerare patologico: si tratta di un malessere che trova la sua risoluzione con il rientro alla propria routine quotidiana dopo l’epifania.

I sintomi più comuni sono:

  • Mal di testa
  • Incapacità a dormire o dormire troppo
  • Cambiamenti nell’appetito causati da perdita o aumento di peso
  • Agitazione o ansia
  • Senso di colpa eccessivo o inappropriato
  • Diminuzione della capacità a pensare chiaramente o a concentrarsi
  • Diminuzione dell’interesse in attività che normalmente portano piacere come: cibo, sesso, lavoro, amici, hobby e divertimenti.

L’incontro con i propri familiari e amici, se forzato, può portare l’individuo a scontrarsi con gli aspetti disfunzionali delle proprie relazioni, situazioni conflittuali irrisolte generano disagio e tensione.

Queste occasioni ci costringono a confrontarci con noi stessi e con gli altri dovendo rispondere spesso a domande indiscrete o inopportune, che generano sensazioni di rabbia, ansia, tristezza e frustrazione. In particolare, per le persone che stanno affrontando una fase particolarmente difficile della loro vita (separazione, lutto, difficoltà lavorative), i sentimenti di solitudine e abbandono si acutizzano in prossimità delle festività e il ricordo di eventi dolorosi diventa più difficile da gestire.

La depressione natalizia non è una malattia, ma una sorta di crisi esistenziale accompagnata da malinconia, una specie di “depressione post partum”: così come la donna che ha appena partorito spesso è depressa mentre tutti si aspettano che sia felice e piena di entusiasmo, allo stesso modo una persona con un disagio interiore si sente chiamata a esternare felicità per rispondere al clichè della gioia del Natale (P. Vinciguerra).

La depressione natalizia può però originare anche dall’eccesiva aspettativa di gioia associata a questo evento, per alcuni il Natale stimola a rimuginare sull’inadeguatezza della propria vita e sulla precarietà dei legami. Le festività rappresentano infatti una pausa dalla routine quotidiana e quindi cambiamenti nelle abitudini e nelle attività, il tempo libero può far riaffiorare i problemi e le difficoltà fino a quel momento apparentemente gestiti o ignorati.

Per coloro che già soffrono di disturbi dell’umore, il Natale può far peggiorare la sintomatologia clinica e portare a manifestare risposte emotive negative, agitazione, disperazione e ritiro. Purtroppo questo periodo dell’anno si caratterizza anche per un’elevata acutizzazione di crisi depressive con possibile rilevanza di tentativi di suicidio e decessi alcol correlati.

Nel caso in cui lo stato di sofferenza psicologica si manifesti con una sintomatologia importante, è indispensabile consultare un professionista della salute mentale per impostare un intervento di cura mirato.

Occuparsi del proprio disagio è importante oltre che utile.

Se si vive un momento difficile non ci si può costringere a far finta di nulla, ostentando una felicità e una serenità fittizia.


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8 Dicembre 2017 News

Prima o poi arriva il momento dello svezzamento per il bambino, i genitori devono essere preparati ad affrontare questa prima forma di autonomia ed accompagnare il proprio figlio nel percorso che porta alla formazione di sane abitudini alimentari.

Spesso il momento del pasto si può trasformare in una vera e propria lotta, dove il potere sembra essere nelle mani del bambino che può diventare in questa fase un paradossale tiranno rivoluzionario!

Il genitore dovrebbe cercare di trasmettere e far rispettare le regole principali che riguardano l’alimentazione, ovvero:

  • Mangiare da solo;
  • Mangiare tutto ciò che è nel piatto;
  • Non giocare con il cibo;
  • Mangiare tutti i cibi anche quelli di minor gradimento ma importanti per la salute come le verdure;
  • Restare seduto a tavola fino al termine del pasto.

I genitori devono affiancare, stimolare ed essere d’esempio al bambino al fine di fargli acquisire una sana educazione alimentare…non deve mancare perciò un’alta dose di pazienza!

Questa fase di acquisizione in molti casi è caratterizzata da “capricci” e proteste che, se non risolte in tempi brevi, possono condurre allo sviluppo di veri e propri disturbi alimentari o a difficoltà comportamentali.

Spesso i genitori mettono in atto delle  strategie che, lungi dall’essere efficaci, aumentano in loro il senso di fallimento e impotenza.

Possiamo elencare alcuni esempi:

  • Spronare il bambino fino ad arrivare all’autoritarismo (“mangia!”) o al ricatto emotivo (“se non mangi mamma diventa triste!”);
  • Corrompere il proprio figlio attraverso dei ricatti concreti (“se mangi tutto ti porto alle giostrine”). E’ una strategia che può portare a dei risultati nell’immediato, ma a livello educativo può essere deleteria;
  • Confrontare il comportamento del bambino con quello dei fratelli o degli altri amichetti (“guarda come è bravo tuo fratello che ha mangiato tutto!”).

Tutte queste strategie fallimentari portano a focalizzare l’attenzione sul problema e trasformano il momento del pasto in un vero e proprio incubo sia per i genitori che per il bambino che diventa sempre più ostinato e si sente visto solo per il suo “problema”.

Questo non fa che allontanare il cibo dalla funzione di piacere che dovrebbe assumere, queste dinamiche possono inoltre interferire con la capacità del bambino di autoregolarsi riconoscendo la sensazione di fame e sazietà.

Si possono individuare delle strategie che possono risultare utili ai genitori nell’affrontare questa fase oppositiva:

  • Evitare di forzare il bambino a mangiare, l’alimentazione deve essere importante per lui non solo per il genitore. Anche se questo vuol dire che per un po’ il bambino mangerà poco o salterà il pasto, è importante cercare di placare la propria ansia e far sì che si inneschi un’interruzione nella dinamica di potere che sottende al pasto;
  • Evitare di parlare solo del cibo, questo infatti non fa che ingigantire il problema e le ansie legate ad esso.

Sicuramente il bambino non si lascerà morire di fame, inoltre permettergli di mangiare sempre le stesse cose pur di fargli ingurgitare qualcosa non giova comunque alla sua salute e igiene alimentare.

E’ importante che i genitori siano fermi e uniti nel mettere in atto queste strategie educative senza farsi sopraffare dalle angosce.

Può essere utile l’aiuto di uno psicologo che può permettere ai genitori ed al bambino di affrontare quelle problematiche relazionali che possono nascondersi dietro al cibo.


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1 Dicembre 2017 News

Linfa dell’arte, puro atto creativo, custode del sonno, il sogno da sempre affascina l’essere umano per la capacità di svincolarsi dai principi del pensiero logico e dalla connessione con la realtà.

I bambini sono dei produttori di sogni davvero sorprendenti, infatti, rispetto agli adulti, sono meno inibiti e preoccupati a nasconderne gli effetti spiacevoli o negativi; la loro realtà è più vicina a quella delle immagini, immersi come sono in un fantastico e fiabesco mondo, dove nulla è come sembra e tutto ciò che accade è magia.

Quando gli adulti sognano qualcosa di fastidioso o inquietante, spesso perché spaventati dal dover riconoscere i motivi del disagio ed affrontarlo, al risveglio scacciano il ricordo e, dunque, l’eventuale problema manifestatosi in sogno.

Anche i bambini, durante l’adolescenza, imparano a inserire meccanismi di difesa nei sogni, ma da piccoli sono desiderosi di parlarne.

L’attività onirica dei bambini è creativa, non si limita a rimaneggiare i dati dell’esperienza di veglia, ma li riorganizza in modi completamente nuovi.

Più spesso nei sogni compaiono le attività ricreative, gli eventi e gli ambienti, e soprattutto il gioco, protagonista nella loro vita come nelle storie oniriche. Infatti, così come il gioco costituisce spesso una forma di auto-guarigione da un temporaneo periodo di difficoltà, il sogno, liberando allo stesso modo il bambino dai legami e dalle inibizioni imposti dalla vita ordinaria, utilizza lo stesso meccanismo del gioco: attraverso il sogno il bambino può ripetere le esperienze dolorose ed elaborarle, attivando la capacità di fruire di una riparazione immaginaria che gli permette di superare tali difficoltà.

Gioco, fantasia e sogno seguono quindi linee che s’intrecciano magicamente per aiutare il bambino a definire se stesso e il mondo esterno attraverso il quale è in continua relazione esistenziale. Ricercatori che hanno studiato i comportamenti di gioco in uomini ed in altre specie animali, hanno trovato che il gioco è “autoietico”, cioè si fa per il proprio bene senza essere guidati o motivati da un obiettivo esterno.

Il gioco implica la creazione di uno spazio “irreale” o “quasi-reale”, un mondo chiaramente a parte con ruoli speciali.

La sua funzione primaria quindi ci mette in grado di sperimentare le diverse possibilità della nostra vita, esaltando la nostra flessibilità, creatività e capacità di reagire bene alle nuove esperienze.

Queste caratteristiche del gioco descrivono perfettamente anche le attività del sogno. Infatti la sua funzione primaria è quella di aiutarci ad elaborare nuove informazioni ed esperienze emotive e a stimolare le nostre capacità creative, di spontaneità e di auto-completamento.

Il sogno sostanzialmente è una forma di gioco, un gioco in cui ci avventuriamo e sperimentiamo di notte. In qualsiasi momento può accadere che un gruppo di bambini inizi spontaneamente a divertirsi giocando con i propri sogni, esplorando e chiarendo le differenze tra i comportamenti del sogno e della veglia.

Fingendo di sognare possono giocare più liberamente ed esprimere la propria aggressività più vigorosamente di quanto solitamente verrebbe permesso loro.

Da esperienze sul campo, come spesso capita, si è notato che quando ai bambini si chiede di raccontare un “loro sogno onirico”, quello che si ricordano meglio o che è loro piaciuto di più, si apre un canale di comunicazione molto particolare. La capacità comunicativa dei bambini permette una completa trasmissione di tutti gli elementi affettivi legati all’esperienza onirica, soprattutto quando non caricata dalle sovrastrutture imposte dalla società.

I bambini di età compresa tra i 6 e i 12 anni, raccontano molto volentieri i loro sogni che ricordano con grande dovizia di particolari. Ma non solo, su questa richiesta di raccontare i loro sogni si è visto che cambiano lessico: parlano in modo più forbito di quanto facciano normalmente e delineano racconti e situazioni complesse in modo chiaro e, per quanto possibile con materiali onirici, esaustivo. Le storie da loro raccontate alla fine sono delle favole, surreali e oniriche.

Raccontare i sogni significa farci entrare in un mondo molto personale, fantastico e simbolico, che in qualche modo scavalca e si pone prima delle sovrastrutture culturali, delle differenze etniche, religiose, linguistiche.

L’arte è un mezzo ideale per esprimere il significato dei sogni. Anche se gli adulti hanno capacità verbali più sviluppate, i bambini sono meno inibiti e possono essere più espressivi nei propri lavori artistici. Scenette, disegni, collage, maschere, costumi e fotografie possono essere veicoli produttivi per immaginare oltre il sogno. Usando ad esempio un disegno o uno scritto creativo un bambino può abbellire questa storia, farla proseguire, modificarne i dialoghi o creare interamente un nuovo

finale. La probabile funzione di questi esercizi artistici è di aiutare il bambino a focalizzare e potenzialmente risolvere ansie relative a eventi, situazioni nuove e rapporti preoccupanti.

E’ importante stimolare la condivisione dei sogni nei bambini, essi possono essere uno strumento per i genitori e gli insegnanti per aver accesso al loro mondo interno e comprenderlo meglio.


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22 Novembre 2017 News

 

Arriva l’inverno e con esso anche l’attacco di virus influenzali vari: raffreddore, tosse, febbre, dolori vari e infezioni intestinali da incubo!

Dai dati dell’Osservatorio Nazionale sulla salute si evince che l’Italia è popolata da 23 milioni di malati cronici che assumono almeno due pillole al giorno. Dopo la Grecia e il Portogallo, l’Italia si colloca al terzo posto in Europa per la spesa farmaceutica sia pubblica che privata.

Frequentatissimi risultano i siti di medicina e salute per le “autodiagnosi” e molta audience hanno i programmi e le serie televisive di argomento medico.

Grazie al facile accesso all’informazione si passa rapidamente da un semplice sintomo ad una malattia incurabile!

I pazienti italiani si possono dividere arbitrariamente in due grandi categorie opposte: gli ipocondriaci e gli incoscienti.

I primi sono coloro che al minimo allarme decretano la propria morte imminente e si rivolgono continuamente al medico per cercarne conferma. Questo comporta l’affollamento delle sale d’attesa degli studi medici e dei pronto soccorso.

La seconda categoria è rappresentata da coloro che neanche sanno o non ne vogliono sapere di avere un medico di famiglia, l’ultimo prelievo o controllo magari risale all’infanzia e si ripetono continuamente “Non è niente…ora passa” oppure “meglio non sapere!”.

Si sottolinea continuamente l’importanza della prevenzione e del controllo periodico del proprio stato di salute per poter identificare indizi di malattie come il cancro, ma questo gruppo di pazienti, che ho chiamato incoscienti, si sente escluso dal discorso.

La scelta e l’azione di chiedere aiuto al medico racchiude sentimenti ed emozioni molto intense: Safer chiama “delay” (indugio), il periodo di tempo che intercorre tra l’attribuzione della diagnosi e la sensazione e scelta di rivolgersi ad un dottore.

Si tratta di un vero e proprio processo con diverse fasi che possiamo esemplificare. La prima fase consiste nella scoperta di un probabile sintomo che attiva nella mente una valutazione con due probabili tipologie di pensieri ed esiti: nel primo caso “niente di grave…passerà” oppure nel caso opposto possono sorgere una serie di dubbi e preoccupazioni che occupano tutto lo spazio mentale.

L’azione successiva consiste nel cercare informazioni da parenti e amici che possono riferire esperienze simili o si ricorre alla navigazione sul web che porta sempre ad esiti nefasti. Tutta la ricerca effettuata nei casi migliori porta alla consultazione medica a meno che non si sia incappati in cure alternative fai da te.

Nel momento in cui si decide di affrontare la visita medica cambia il proprio assetto mentale: si mescolano conoscenze, esperienze precedenti, valori con asie e aspettative nei confronti della visita e dell’eventuale diagnosi e prognosi.

Ancora più gravose sono le resistenze a rivolgersi ad uno specialista della salute mentale. Le angosce in questo caso sono più forti e organizzate oltre ad essere meno visibili. Si tratta di pensieri e razionalizzazioni che la persona usa per spiegare il proprio disagio o malessere a sé stessa ed agli altri.

Ci si convince di potercela fare da soli, che i problemi li hanno tutti e che nessuno può capirti meglio di te, oltre a temere il giudizio degli altri sapendo che vai dallo psicologo.

Si tratta di credenze e convinzioni che non permettono una soluzione ma portano solo alla chiusura e al malessere.


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13 Novembre 2017 News

Spesso dietro al mal di pancia o ai bruciori di stomaco si nascondono problemi psicologici.

In pratica, l’intestino si comporta come un secondo cervello (cervello addominale) in grado di mandare segnali di stress in modo autonomo, condizionando la produzione dell’ormone del benessere, rilasciato proprio da quest’organo. Anche il cervello addominale produce sostanze psicoattive che influenzano gli stati d’animo, come la serotonina, la dopamina ma anche oppiacei antidolorifici e persino benzodiazepine. Le discussioni in famiglia, la rabbia e le tensioni sul lavoro si accumulano proprio sull’addome, laddove, quando si è preoccupati, è subito possibile sentire lo stomaco che ‘tira’ o la pancia che si gonfia.

Il cervello addominale sarebbe addirittura dotato di memoria che per fissare i ricordi usa le stesse molecole del cervello della testa: gli stress del passato si stampigliano così nel cervello e nell’addome, rendendo l’asse tra questi due centri ipersensibile per tutta la vita. E questo spiega perché i bambini che soffrono di coliche nell’infanzia hanno in genere un rischio maggiore di diventare adulti sofferenti per il colon irritabile.

Secondo la medicina cinese, la pancia gonfia indica un accumulo di ansia che non riesce ad essere scaricata in altro modo e, quindi, viene interiorizzata e accumulata internamente. Il respiro affannoso, proprio di chi vive in modo particolarmente agitato, contribuisce a far ingerire molta aria che, non potendo essere espulsa da naso e bocca, resta intrappolata nell’intestino.

Pancia gonfia, dispepsia, meteorismo, colon irritabile possono avere un’origine psicosomatica.

Tra i sintomi che più comunemente vengono riferiti al proprio medico ci sono:

  • stitichezza e diarrea
  • dolori addominali di tipo crampiforme
  • pancia e stomaco gonfi
  • meteorismo e flatulenza
  • digestione lenta
  • nausea

A questi disturbi si risponde con indagini diagnostiche che comprendono esami e test per scoprire le cause fisiche che li originano, ad esempio:

  • eventuali allergie e intolleranze alimentari
  • presenza di ulcere e infiammazioni della mucosa gastroduodenale
  • calcoli biliari
  • diverticoli o polipi intestinali e via discorrendo.

Sono tantissime le malattie che provocano disturbi all’apparato gastrointestinale, ma non sempre dietro un addome costantemente gonfio e affaticato c’è una patologia organica. Certo, questi mal di pancia emotivi non sono gravi, non sono patologici ma… possono sempre diventarlo se non si affrontano le cause psicologiche che ne sono all’origine.

Ma come è possibile che una stitichezza ostinata, uno stomaco gonfio e dolorante che fatica a digerire anche il pasto più leggero possano essere conseguenza di uno stato emotivo alterato?

Anche nell’intestino sono presenti cellule neuronali, seppur molte meno rispetto a quelle cerebrali, le quali, influenzate da fattori fisici e da stimoli di vario tipo, tra cui le emozioni interne, rilasciano ben il 95% della serotonina totale sprigionata dall’organismo.

La serotonina è proprio l’ormone che regola gli stati d’animo e le loro mutazioni, e le informazioni in esso presenti, vengono inviate direttamente al sistema limbico del cervello, che ha il compito di rielaborale. Quando le emozioni hanno un tratto negativo, e sono associate a stati di tensione e di ansia o di paura, allora il cervello invia all’intestino “l’ordine” di rilasciare altra serotonina per gestire il surplus emotivo ma questo ha delle conseguenze sulla funzionalità dell’apparato digestivo.

Ciò che accade è che la muscolatura addominale si contrae provocando gonfiore, diarrea o stitichezza, crampi, senso di tensione, spasmi. Ma non è finita qui, infatti la tensione emotiva, lo stress, inducono una iper-secrezione di acido cloridrico da parte dello stomaco, cosa che può alla lunga provocare infiammazione delle mucose e quindi bruciori, gastrite, persino ulcere.

La muscolatura addominale contratta nella zona diaframmatica, infine (cosa di cui ci accorgiamo quando tendiamo, senza renderci contro, a stare in apnea anziché respirare profondamente “di pancia”), rallenta la digestione e crea la classica dispepsia.

E’ dunque molto importante, una volta che gli esami clinici e i test allergologici abbiano escluso un’origine patologica dei nostri disturbi gastrointestinali, cercare di lavorare sul nostro stato psicologico con l’aiuto di un professionista.

Le emozioni negative possono farci ammalare, ricordiamocelo!


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